Al recente Congresso Nazionale della SIMLII la Medicina del lavoro è tornata, dopo oltre un decennio dal 2004, ad affrontare il tema dei rischi per la salute nelle Forze di Polizia.
Per far questo si è partiti da una analisi della letteratura scientifica che indica come le forze di polizia siano state oggetto prevalentemente di studi episodici, a carattere descrittivo o di indagini trasversali su campioni di convenienza.
Sono molto scarsi gli studi longitudinali o quelli condotti su campioni randomizzati. Tuttavia, l’efficacia di queste indagini, pur limitata, è sufficiente ad illustrare un quadro di sicuro interesse per la medicina del lavoro.
In molti paesi, i poliziotti non sono sottoposti a sorveglianza sanitaria ma solo ad una visita medica all’assunzione. Anche se la selezione all’ingresso garantisce un significativo “effetto lavoratore sano”, lo stato di salute dei poliziotti si deteriora più rapidamente di quello della popolazione generale.
Si registra un rischio significativamente elevato di disturbo da stress post-traumatico, di stress cronico, di sindrome metabolica, di malattie cardiovascolari e di depressione.
Benché durante il servizio gli operatori segnalino solo raramente problemi di salute mentale, l’uscita dal servizio avviene soprattutto per malattie mentali (come ricordato nel 2011 da Sommerfield).
Paradossalmente, però, i poliziotti generalmente non cercano aiuto medico-psichiatrico ed infatti la frequenza di visite specialistiche richieste da poliziotti è significativamente inferiore a quella della popolazione generale e per lo più finalizzata a curare sintomi come l’eccessiva stanchezza o la difficoltà di dormire piuttosto che a diagnosticare o trattare disturbi mentali /o di comportamento.
Non sorprende in questo quadro che i poliziotti siano una categoria ad alto rischio di suicidio. Questo ultimo aspetto è uno dei più stigmatizzati e dei meno studiati pur se disponiamo di dati che fotografano la realtà di singoli paesi a partire da quelli francesi.
La Polizia italiana è l’unica tra quelle dei grandi paesi europei ad avere reso noti i dati (vedi Carrer e Garbarino. “Lavorare in Polizia. Stress e burnout “. Franco Angeli Editore 2015),
Tra il 1999 ed il 2012 si contano 137 suicidi, un numero prossimo a quello degli agenti uccisi da criminali o deceduti in servizio che sono stati nello stesso periodo 147. Il tasso di suicidi nella polizia è più alto di quello della popolazione generale italiana.
Oltre il 90% dei casi fa uso dell’arma di ordinanza. Alla base di ogni caso di suicidio vi è sempre una sofferenza così lacerante da far ritenere che la morte possa essere preferibile alla vita.
Altri temi importanti nell’ambito delle forze dell’ordine sono dati dalla sindrome metabolica, cioè l’associazione di dislipidemia, ipertensione, obesità ed intolleranza glucidica ed il rischio cardiovascolare ad essa associato, i disturbi del sonno e dell’eccessiva sonnolenza diurna e dallo stress.
Nelle forze dell’ordine, più che in altri settori lavorativi, si deve continuamente verificare non solo lo stato di salute dei lavoratori ma anche la loro capacità di rispondere in modo efficace ed in piena sicurezza a stimoli esterni che possono essere previsti solo stocasticamente.
Su questa base è stato proposto di sottoporre gli operatori di polizia ad una sorveglianza sanitaria con controlli periodicamente programmati e con uno spiccato orientamento alla promozione della salute.
L’introduzione della valutazione del rischio, a seguito del recepimento delle direttive comunitarie, ha portato ad un sensibile ampliamento del numero degli Operatori dei Corpi di Polizia (OCP) sorvegliati più ancora che dello spettro delle attività tutelate.
Oggi un cospicuo numero di OCP è sottoposta a sorveglianza sanitaria obbligatoria, anche se i rischi professionali, in virtù dei quali tale sorveglianza sanitaria è istituita, sono, nella grande maggioranza dei casi, l’attività al videoterminale, il rischio chimico correlato all’attività dei gabinetti di polizia scientifica ed il rumore (vedi grafico sottostante).
Si tratta dunque di rischi comuni a grande parte della popolazione lavorativa sorvegliata ai sensi del D.lgs. 81 senza riferimento alle specificità del settore.
Un simile approccio, si legge nel testo SIMLII, “non appare quindi ancora adeguato a quelli che sono considerati in tutto il mondo i rischi professionali principali per gli OCP, con particolare riferimento allo stress, e alle possibili ricadute soprattutto in termini di disturbi psichici, di malattie cardiovascolari e di problemi muscoloscheletrici, cognitivi e comportamentali, fortemente correlati al fenomeno infortunistico”.
Il rischio infortunistico, di entità rilevante e prioritariamente riconducibile agli ineliminabili contenuti dell’attività lavorativa, può essere incrementato da altri fattori, quali il lavoro a turno e notturno, lo stress correlato ad eventi critici acuti e cronici, l’invecchiamento della popolazione lavorativa, la fatica, il non corretto collocamento in una determinata mansione.
Inoltre, anche relativamente a mansioni che comportano l’esposizione a fattori di rischio espressamente previsti dalla normativa vigente, vi è spesso una intrinseca difficoltà nel definire con sufficiente precisione intensità e durata dell’esposizione.
Difatti, determinati compiti possono comportare livelli di rischio molto diversi, in rapporto all’impegno concreto e alle dinamiche che ne possono derivare.
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